Quando prendi in mano un capo e dai un occhio all’etichetta (ti supplico di dare sempre uno sguardo alle etichette, può dirti tanto riguardo al capo) una delle scritte più comuni e sempre presenti sui vestiti è la fatidica “MADE IN…”. E come immagino, ti sarai accort* che la maggior parte dei capi che acquisti provengono da Paesi come: Cina, Bangladesh, Turkmenistan, Vietnam, Pakistan e tutta una serie di Paesi in via di sviluppo. Ecco, queste provenienze spesso nascondono una verità tanto oscura quanto comune: lavoro minorile e schiavitù.

Etichetta Made in per il lavoro minorile e la schiavitù

Numeri diabolici: il lavoro minorile nel mondo

In molti Paesi in via di sviluppo, i diritti dei lavoratori non sono una faccenda così rilevante. E così, migliaia di uomini e donne sono costretti a lavorare in condizioni pessime, senza assistenza, con orari interminabili e un guadagno irrisorio. La difficoltà di ricevere un salario dignitoso crea la necessità, in molti di questi Paesi, di far lavorare tutti i membri della famiglia. Tutta la famiglia significa anche bambini. Ci sono oggi 160 milioni di bambini che lavorano nel mondo, dei quali 79 milioni sono impegnati in lavoro minorile. Di questi, 7 su 10 lavorano in agricoltura e quindi anche nella raccolta del cotone, e una grande percentuale lavora nell’industria tessile.

Bambino e lavoro minorile

In Uzbekistan il governo ogni anno chiude le scuole a settembre e manda migliaia di bambini a raccogliere cotone. In Tagikistan, 200 mila bambini sono costretti ogni anno a raccogliere cotone, stesso fenomeno che accade anche in Turkmenistan. I bambini sono di natura docile e ubbidiente. Hanno piccole dita utili per raccogliere il cotone e per ricamare e rifinire gli abiti, ma anche nelle fasi di tintura e imballaggio. Questa realtà crea un ciclo infinito di povertà dovuta alla mancanza d’istruzione che possa offrire loro la possibilità di ottenere lavori pagati dignitosamente quando diventano adulti.

Schiavitù: cos’è e cosa comporta?

La schiavitù può apparire in una varietà di forme, dalla raccolta del cotone alla filatura della fibra, dalla cucitura del capo alla modellazione del prodotto finale. Molti grandi marchi e aziende di moda non hanno il pieno controllo delle loro catene di approvvigionamento, rendendo così possibili pratiche di lavoro illegale. Secondo Anti-Slavery International, una persona è in schiavitù o ai lavori forzati se:

1. È costretta a lavorare attraverso la minaccia mentale o fisica;

2. È posseduta o controllata da un datore di lavoro, di solito attraverso abusi mentali o fisici o la minaccia di  abusi;

3. È disumanizzata, trattata come un prodotto o acquistata e venduta come proprietà;

4. È fisicamente vincolata o ha restrizioni sulla libertà di movimento.

Donne indiane e schiavitù

Quante persone si trovano costrette in forme di schiavitù moderna? Il Global Slavery Index stima che oltre 45 milioni di persone lavorino in schiavitù in centosessantasette Paesi. Il 58% di loro si trova nei principali Paesi produttori di cotone o abbigliamento: Cina, India, Pakistan, Bangladesh e Uzbekistan. Secondo il Global Slavery Index 2018 della Walk Free Foundation, la moda è tra le 5 industrie che trae il maggior vantaggio dalla diffusione capillare della schiavitù moderna. La Corea del Nord, l’Eritrea e il Burundi sono le prime tre nazioni con la più alta prevalenza di schiavitù. Ma le importazioni più a rischio provengono da Cina, India, Vietnam, Thailandia, Malesia, Brasile e Argentina.

Lavoro minorile e schiavitù non hanno leggi

Nel settore tessile non esistono norme obbligatorie che coprono tutti gli aspetti della responsabilità sociale. A livello internazionale, tuttavia vi sono alcuni punti di riferimento. LOCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha pubblicato una linea guida generale sulla condotta di business responsabile e alcune linee guida per la valutazione dei fabbricanti. L’ISO (International Organization for Standardization) ha pubblicato la norma E 26000 con linee guida per la responsabilità sociale. E ancora i Fashioning accountability and building real institutional change act, noto come Fabric Act. Si tratta della prima legge federale americana sulla moda che mira a migliorare i diritti dei lavoratori dell’abbigliamento e a sostenere l’industria manifatturiera americana.

Logo del Fabric Art americano per il lavoro dignitoso
Immagine dal sito ufficiale thefabricact.org

Sono tutte norme importanti, che però hanno un limite: non sono formulate come requisiti oggettivi, e quindi non sono certificabili. Le aziende oggi si attengono a una cosiddetta “carta etica”, un codice di comportamento etico volontario che però fa ben poco per tutelare i lavoratori. La mancanza di obbligatorietà di un comportamento etico dettato da leggi e implementato dai governi lascia i lavoratori molto vulnerabili.

Iniziative per il lavoro minorile e la schiavitù

Le aziende che producono in Paesi a rischio devono quindi sorvegliare attivamente la loro catena di produzione. La Francia ha introdotto nel 2017 il Devoir de Surveillance, ossia, l’obbligo per i grandi marchi e catene della distribuzione di affidarsi a controlli di terza parte indipendente.

Sulla stessa linea si sta muovendo l’Unione Europea, che nel 2022 ha raggiunto un accordo sul pacchetto di norme conosciute come Due Diligence (Dovuta Diligenza). Si tratta di un’attività di investigazione e di approfondimento di dati e di informazioni relative all’oggetto di una trattativa di terza parte indipendente. Quindi imparziale su tutti gli aspetti di responsabilità sociale, diritti umani e condizioni di lavoro, salute e sicurezza, ambiente ed etica. Tra questi è da citare Get It Fair, il primo schema di Due Diligence tutto italiano a disposizione di marchi di moda per verificare il rispetto dei diritti umani, la sicurezza dei luoghi di produzione e gli impatti ambientali.

logo Get It Fair - Italia per il lavoro dignitoso
Immagine dal sito ufficiale getit-fair.com/it/

E noi cosa possiamo fare?

Cosa si può fare di concreto per accelerare la transizione? Noi consumatori dobbiamo tenere desta la curiosità, porci domande, cercare risposte. Dobbiamo renderci conto che l’acquisto è un atto morale, e non solo economico. Coinvolge migliaia di persone che seminano, raccolgo, filano, tessono, tingono, tagliano, cuciono e ricamano. Dobbiamo chiedere ai brand impegno, onestà, responsabilità e investimenti. Se non viene intrapresa alcuna azione, i brand si troveranno schiacciati dalla caduta dei prezzi medi per item, dai conti più alti, dall’aumento dei costi e dalla scarsità di risorse nell’intera supply chain. Scegliere cosa acquistiamo può creare il mondo che vogliamo. Ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio e di chiedere ai propri marchi del cuore di fare altrettanto.